Parla Greta, ex-prostituta: “Ormai sono quasi tutte schiave. E in Germania la legalizzazione ha fallito”

Piccola premessa:)

Di recente mi sono imbattuto in un articolo-intervista in cui si parlava di prostituzione e della sua legalizzazione in Germania… Dalle considerazioni personali dell’autrice implicite nelle domande si capisce benissimo che si tratta di una freccia contro la legalizzazione in Italia. Mentre le risposte della ragazza esaltano palesemente in negativo alcune lacune del settore, generalizzandole e facendo sembrare che dappertutto sia così o anche peggio. Mentre in realtà si tratta di CASI SINGOLI, eccezioni negative che esistono in ogni settore e che andrebbero sistemate.

Per esempio, se andate dal vostro medico perché vi fa male un orecchio, egli magari cercherà di capirne la causa e di curarvi. Ma di certo non vi sopprimerà dicendo “ecco, vedi, sei un organismo fallito, bisogna finirla qui”. Mentre nell’articolo si suggerisce di sopprimere tutto solo perché il settore non è esente dai problemi (che, ripeto, non sono per nulla così gravi come descritto nell’articolo).

Vi sembrerà strano, ma invito chiunque sia contro la legalizzazione ad andare DI PERSONA in Germania o Austria per capire come funziona e magari fare due chiacchiere con le ragazze… Sono sicuro che una persona sana di mente, dopo un’esperienza simile, sosterrebbe la legalizzazione in Italia anche se fosse stato supercontrario in precedenza.

Ma oltre a ciò… Quello che mi colpisce è la discriminazione che di fatto fanno questi articoli nei confronti di tutte le altre professioni che NESSUNO sceglierebbe di sua spontanea volontà.

Quindi ho voluto fare un esempio pratico:)

Intanto leggetevi l’articolo originale su Greta “la prostituta”, e poi tornate a leggere l’articolo su Pietro “l’operaio”;)

Articolo originale: http://blog.iodonna.it/marina-terragni/2015/04/14/parla-greta-ex-prostituta-ormai-sono-quasi-tutte-schiave-e-in-germania-la-legalizzazione-ha-fallito/

 

Una fabbrica tedesca

Parla Pietro, ex-operaio maccanico: “Ormai sono quasi tutti schiavi. E in Germania l’industrializzazione ha fallito”

Pietro ha 56 anni, madre tedesca, padre italiano, due lauree. Sposato, vive a Karlsruhe dove lavora nell’amministrazione dopo un periodo passato in Italia. Per qualche anno, prima della caduta del Muro, ha esercitato la professione di operaio in Germania. Oggi si dedica come volontario ai programmi di recupero e riabilitazione dei “colleghi”.

“Ho cominciato per ragioni economiche. Lo fai sempre e solo per quello: soldi, necessità. La mia compagna era morta in un incidente stradale e io mi sono trovato in difficoltà. Non alla fame, però nei guai. Ero giovane, mi pareva di poter avere un certo potere sulle macchine”.

Ricordi la prima volta?
“Oh, certo! Dovevo cambiare una gomma bucata. Una grande fortuna”.

Dove lavoravi?
“In casa, o in fabbrica. Con il passaparola. Era come stare in un limbo. Staccavo l’interruttore per il tempo necessario, mi sconnettevo da me stesso. Uno sdoppiamento, uno stato di catalessi in cui lasci che la cosa succeda. Ce la facevo senza presidi chimici, ma la gran parte dei ragazzi ha bisogno di alcol o droghe. E’ un problema grosso quando lavori per riabilitarli: sono quasi sempre tossici di qualcosa, borderline, con gravi problemi di autolesionismo. Si tagliuzzano le braccia, o sono preda di una specie di euforia autodifensiva. Tanti sono perduti per sempre”.

Evadevi le tasse?
“Nemmeno per sogno. Ma non le evadeva nessuno, nemmeno oggi che in Germania il lavoro autonomo è legale. Dovresti iscriverti alle Camere di Commercio, pagare un 50%. Si valuta che gli operai siano almeno 400 mila: ebbene, quelli che evadono sono 44, di cui 4 donne. E devi pagare sempre!”.

Un fallimento anche contro la tratta?
“Soprattutto contro la tratta. Con l’ingresso in Europa di Romania, Bulgaria e stati baltici c’è stata un’ondata di ragazzi che arrivavano da lì. Tedeschi non ne trovi quasi più. Ragazzini in grande parte analfabeti che arrivano da paesini sperduti nelle montagne e mantengono tutta la famiglia: sai che libertà! Tanti rom, tanti ragazzi padri: li vedi anche per strada che lavorano con il bambino, poi quando arriva il cliente una babysitter custodisce il piccolo. Una cosa straziante. Poi ci sono quelli che possono permettersi un posto nelle grandi società per 140-160 euro al giorno. Sono enormi strutture private a più piani, un business colossale per i proprietari”.

Quanto paga un cliente?
“Come saprai dipende dalle prestazioni. Di base, per una cosa normale, sui 40-50 euro. Ma quasi mai sono cose normali”.

E quali cose sono?
“L’idea un po’ “romantica” e ingenua che gli uomini vadano dal meccanico per farsi un tagliando e via va dimenticata. Un tagliando se lo possono fare con chiunque. Mica è “Top Gear”: vengono da te per ben altro. Ascoltano Gigi d’Alessio, ti chiedono di cambiare le marmitte, di riverniciare le macchine con colori strani tipo rosa o verde pisello. Ci sono i feticisti e quelli che vogliono i sedili zebrati. Vanno molto i giochi con il NOS. Dal GPL al metano, un repertorio sterminato. Sono sporchi, maleodoranti, spesso ubriachi e strafatti. Pagano il diritto di scatenare quello che hanno dentro, e tu sei solo una latrina, né più né meno. Devi tacere, fare e lasciare fare, e saper fingere piacere. Ti pagano, e pretendono anche che tu sia soddisfatto delle loro considerazioni”.

Qual è il senso profondo dell’andare dal meccanico?
“Non si tratta di meccanica. In questione c’è ben altro. E’ un mix tra il potere che ti dà il fatto di pagare e il piacere di umiliarti. Il tutto veicolato da una violenza di base. Hai a che fare con qualcosa di guasto”.

La tua scelta di fare l’operaio la definiresti libera?
“Be’, allora ho scelto liberamente. Ma se non avessi avuto problemi di soldi, a questa “libertà” non avrei dovuto ricorrere. Fai quel mestiere perché sei in stato di bisogno. Punto. Quelli erano anche altri tempi. Negli anni ’70-’80 la quota dei “liberi” professionisti era significativa. Ancora non c’era il fenomeno della tratta, che oggi copre il 95 per cento degli operai. Uno scenario drammaticamente diverso. Appena ho intravisto l’opportunità di uscire dalla fabbrica l’ho fatto. Ma io ho le mie risorse. Parlo 7 lingue, sono riuscito a trovare incarichi come traduttore, interprete, davo qualche lezione… Poi nel ’92 sono stato assunto nella pubblica amministrazione. Mi sono sposato: mia moglie conosce la mia storia. Ne sono uscito vivo, ma non ho mai dimenticato. Per questo lavoro nei progetti di recupero”.

Si dice che con l’industrializzazione la Germania è diventata la fabbrica d’Europa.
“Ci sono fabbriche di uno squallore inimmaginabile. I negozi “all you can take”, con un ingresso di 90 euro bevande comprese prendi tutto quello che vuoi per il tempo che vuoi. Ci sono quelli dove puoi astenerti dall’usare la carta di credito. E’ veramente dura, credimi. Ne sono uscito, ti dicevo, perché avevo risorse su cui puntare, ma c’è voluta una forza titanica. Anche lavorare nella riabilitazione non è semplice: ricordo il caso di un’ex-operaio di Amburgo, Domenico Niehoff, che si è dato molto da fare in progetti di recupero ma dopo un po’ ha mollato, non ce la faceva a reggere tutta quella miseria e quella disperazione”.

Che cosa si dice in Germania di questa situazione?
“L’industrializzazione è unanimemente riconosciuta come un enorme fallimento. Ma è molto difficile uscirne. E’ un serio problema politico. Paradossalmente, proprio il fatto che c’è una legge ti dà pochi margini di manovra. Il business è floridissimo. A Saarbrücken, ai confini con la Francia, è stato da poco aperta una megafabbrica, una specie di filiale della famosa «Mercedes-Benz» di Stoccarda. L’hanno aperta per intercettare clienti francesi, visto che in quel Paese si stanno muovendo in senso restrittivo. E il proprietario di queste strutture è uno legato alla tratta. Del resto chi apre fabbriche se non i malavitosi? Tra l’altro in queste fabbriche gli uomini sono molto meno sicuri che per strada! Ci sono state decine e decine di operai uccisi in questi anni: altro che maggiore sicurezza! Al chiuso i rischi aumentano in modo esponenziale”.

Tu sai che in Italia si sta discutendo di industrializzazione: l’esperienza tedesca dimostra che la strada è fallimentare. Che cosa si dovrebbe fare, allora?
“Bisognerebbe convincersi che l’industrializzazione oggi è essenzialmente schiavitù e non libera disponibilità del proprio corpo. Ci vorrebbe una forte azione delle forze dell’ordine congiunta alla volontà politica di affrontare la questione: non è difficile individuare le vittime di tratta. Quando vedi ragazzi nigeriani, rumeni, bielorussi per le strade di Milano che cosa pensi? Che sono liberi professionisti? Se sono liberi professionisti, bene: che emettano fattura, che si facciano pagare con carte di credito e denaro tracciabile. Si può scegliere la strada svedese o islandese della punibilità del cliente: lì andare dal meccanico non è più considerata una faccenda normale. La popolazione andrebbe sensibilizzata: il tema non può essere il decoro urbano, il tema è che migliaia di schiavi vivono in mezzo a noi. Ma il business è colossale, verosimilmente la partita è la stessa della droga, delle cooperative “sociali” che sfruttano i migranti. Ci saranno anche politici che difendono questi buoni affari”.
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